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Come mai il gioco è importante per i bambini?

Il diritto al gioco è il primo e più tradizionale dei cosiddetti “diritti culturali” riferiti all’infanzia, sanciti dalle dichiarazioni internazionali e dalla coscienza pedagogica della comunità educante.

Nonostante questo, i cambiamenti sociali e culturali che hanno investito la famiglia, la comunità e la società stanno facendo perdere di vista l’importanza e la necessità di uno spazio e di un tempo libero e liberato in cui i bambini possano dedicarsi a questo accadimento che, seppur privo di scopo, è sempre illuminato da un senso.

Sempre più spesso nel mio lavoro mi capita di confrontarmi con adulti (siano essi genitori, nonni, insegnanti o educatori) che guardano ai bambini animati da sentimenti di ansia e paura, come se di ogni cosa che i più piccoli si accingono a fare possano scorgere solo possibili rischi e esiti drammatici. Raramente mi capita di girare per la mia città, soprattutto d’inverno ma anche in queste calde sere d’estate, e di vedere bambini che giocano in piazza, per strada o nei cortili dei palazzi; di imbattermi nelle loro corse a perdifiato; di udire le loro risate e i loro schiamazzi che fanno capolino dalle finestre delle case aperte per scacciare l’afa. Ci sono ancora piccoli gruppi spontanei che si formano qua e la ma, rispetto alla mia infanzia, questa pratica è sempre meno diffusa.

Vedo genitori che sempre più frequentemente preferiscono e pianificano per i propri figli attività strutturate che, unite ai compiti di scuola e ad altre attività extrascolastiche sportive e non, fanno dei bambini dei piccoli lavoratori a tempo pieno. Per non parlare poi delle circostanze in cui assisto alla vitalità dei bambini venire smorzata piazzandoli davanti ad uno schermo (sia esso della tv, dello smartphone o del tablet). Ancora mi ricordo come fosse ieri di un gruppetto di bambini che, come me tra gli invitati ad un battesimo, hanno trascorso tutto il tempo del pranzo e gran parte del pomeriggio incollati a Nintendo DS, PSP e cellulari di mamme o papà e della sensazione di nostalgia mista a sgomento ripensando a come per me battesimi, comunioni, cresime e compleanni di cugini e compagni di scuola rappresentassero grandi occasioni per divertirmi in compagnia di chi conoscevo già e per stringere nuove amicizie con bambini e bambine che magari non avrei mai più rivisto in vita mia, o che al contrario avrei rincontrato puntualmente anno dopo anno alla festa di compleanno di quel tale cugino o di quella tale compagna di classe.

Sgomento mi ha lasciata anche una signora che pochi giorni fa, reclamando perché un gruppo di bambini era intento a disegnare seduti a terra nel corridoio della sua villa affittata per un matrimonio, con profondo disprezzo e senza il benché minimo ritegno e rispetto per quelle piccole creature davanti ai suoi occhi, ha affermato a gran voce «La verità è che i bambini ai matrimoni non dovrebbero esserci!».

Quand’è che abbiamo smesso di considerare il gioco per l’attività importante, necessaria e dignitosa che realmente è?

Il gioco, anziché venire demonizzato o essere relegato a brevi e sporadici momenti quotidiani come purtroppo sempre più spesso accade, dovrebbe tornare al centro della vita del bambino perché è un’attività completa sotto tre profili:

  • dal punto di vista emotivo, poiché permette l’alfabetizzazione e la formazione dell’affettività e dell’amicizia;
  • dal punto di vista cognitivo, perché da la possibilità di acquisire e sviluppare competenze;
  • dal punto di vista della socialità visto che la comunità che gioca ha una tendenza a farsi duratura poiché trasferisce insegnamenti morali che restano anche dopo che il gioco è finito.

È nel gioco che il bambino sviluppa il dominio del simbolico e con esso la possibilità d’intenzionare il mondo, e cioè di vivere la realtà non sotto il segno del “già dato” ma nella prospettiva del “possibile”.

Grazie alla costruzione, decostruzione, trascrizione e trasmissione dell’attività ludica, inoltre, i bambini hanno la possibilità di acquisire anche codici culturali, sia che per cultura si intenda l’ordine costituito e per gioco la “zona franca” concessa alla spensieratezza e alla trasgressione; sia che per cultura si intenda il patrimonio di esperienze socialmente codificate e cristallizzate e per gioco il luogo di esplorazione e comprensione dei limiti e dell’arbitrarietà di tali esperienze; sia che la cultura sia pensata come ciò che deve essere trasmesso di generazione in generazione e il gioco sia concepito come la naturale predisposizione degli esseri viventi agli apprendimenti e quindi come via maestra di significati condivisi o come laboratorio di nuovi significati, che possono arricchire o trasformare i quadri di riferimento già costruiti.

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Questa immagine l’ho scattata stamattina. Rappresenta un gruppo di bambini spontaneamente riuniti intorno al gioco di memoria e abilità “Maghetti!”, scelto inizialmente da S., che ci aveva giocato per la prima volta con altri bambini il giorno precedente, e che voleva divertircisi nuovamente con il fratello O.. Le regole del gioco prevedono che ad ogni partita possano partecipare al massimo quattro giocatori. Così, mentre S., O., T. e S. erano intenti a rintracciare gli animali nascosti sotto i cappelli, altri amichetti osservavano divertiti partecipando con tentativi di suggerimento e attendendo con pazienza il momento in cui sarebbero stati loro a vestire i panni di tanti piccoli aspiranti Merlino. Arriva il turno della piccola S. che a cinque anni appena compiuti non sa ancora leggere ma che, avendo udito la formula magica pronunciata dai tre giocatori che l’hanno preceduta, la pronuncia decisa senza esitazione impugnando la bacchetta magica. E poi tutto in ordine nella scatola e via, chi verso la casetta a giocare alla famiglia, chi a raggiungere altri bambini per giocare a Dr. Eureka o a qualche altro gioco da tavola, chi a prendere in mano i dinosauri e ad immergersi in un’avventura nella preistoria lontana.